Sfruttavano i lavoratori con la promessa del permesso del soggiorno: 2 caporali a processo

L’indagine sul caporalato.

Sono due i caporali pakistani rinviati a giudizio dalla Procura della Repubblica di Pordenone dopo una lunga indagine che ha fatto emergere un sistema di sfruttamento con decine di vittime, dalle quali i due hanno anche ottenuto soldi contanti per decine di migliaia di euro a titolo di “rimborso” per sostenere inesistenti spese di sanatoria.

Nell’aprile del 2020 i Carabinieri del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Pordenone hanno iniziato una difficile attività d’indagine volta a contrastare Il fenomeno del caporalato. Alcuni pakistani, infatti, durante una manifestazione svolta davanti alla Prefettura di Pordenone hanno avuto il coraggio di denunciare il loro essere sfruttati da loro connazionali nel lavoro dei campi di vite del Friuli Occidentale e del Trevigiano. La circostanza ha avuto recente risalto in una conferenza organizzata dalla CGIL Pordenone avente ad oggetto proprio il fenomeno del caporalato e dell’importanza del coraggio nella denuncia.

Le indagini.

I Carabinieri inquirenti, nell’ascoltare il racconto dei manifestanti dell’aprile del 2020, hanno ipotizzato da subito delle gravissime violazioni di legge da parte di datori di lavoro pakistani titolari di aziende a loro intestate che nel corso di anni hanno assunto e sfruttato decine e decine di loro connazionali. Nel corso dell’indagine, durata quasi due anni e coordinata dalla Procura della Repubblica di Pordenone, i militari del Reparto Operativo, con il prezioso aiuto dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di questo capoluogo, hanno svolto un certosino lavoro di ricostruzione delle violazioni di legge dei principali indagati. Nell’ambito delle attività di coordinamento della Procura si è avuta anche un’attiva partecipazione da parte dei legali rappresentanti della CGIL (cui alcune vittime si erano inizialmente rivolte per vedere tutelati i propri diritti), i quali hanno personalmente preso parte a riunioni di coordinamento con gli inquirenti.

La maxi perquisizione svolta a maggio del 2021 ha fatto sì, inoltre, che 81 cittadini pakistani irregolari sul territorio italiano (tutti formalmente dipendenti di aziende agricole intestate ai loro connazionali sfruttatori) venissero interrogati nei padiglioni della Fiera di Pordenone da centinaia di Carabinieri della Provincia fatti convergere apposta per ascoltare le loro testimonianze e le modalità dello sfruttamento. Di quelle 81 vittime, ben 37 hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, dichiarando che per anni hanno dovuto vivere con poche decine di euro al mese e restituire i loro sudati stipendi ai propri datori di lavoro, con la promessa – mai mantenuta – di ottenere in cambio di migliaia di euro a testa i permessi di soggiorno in Italia.

Le testimonianze, importantissime non solo ai fini investigativi, ma soprattutto per dare sostegno e aiuto concreto alle vittime del caporalato, sono state fondamentali per ipotizzare che i datori di lavoro avessero commesso i reati di concorso in intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, tentata estorsione, violazione delle disposizioni contro l’immigrazione clandestina, violazioni al testo unico sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro, intermediazione abusiva di manodopera, somministrazione di manodopera al di fuori di regolari contratti o mediante mascheramento e contratti leciti. I responsabili di questi crimini, infatti, sono risultati titolari di aziende operanti nel settore agricolo, prevalentemente viti-vinicolo, in sub-appalto di aziende italiane specializzate nel settore e titolari, a loro volta, di contratti di appalto per la gestione dei vitigni tra province Pordenone, Udine, Gorizia, Treviso e Venezia.

I “caporali” assumevano loro connazionali pakistani dimoranti nel territorio di questa Provincia appena giunti illegalmente in Italia seguendo la “rotta balcanica” e, pertanto, privi di permesso di soggiorno o di sanatoria. I pakistani, già vittime della “mafia della migrazione” dal Pakistan all’Unione Europea, venivano allettate non solo con la promessa di lavoro presso terreni agricoli nel Friuli Venezia Giulia e nel Veneto per il quale avrebbero ricevuto una lauta paga secondo il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, ma anche con l’ottenimento in tempi rapidi di un regolare permesso di soggiorno emesso dalle Autorità italiane grazie al loro lavoro svolto nel nostro Paese.

L’indagine ha appurato, tuttavia, che datori di lavoro pretendessero mensilmente l’immediata restituzione in contanti della stragrande maggioranza dello stipendio, asseritamente con lo scopo di sostenere le spese concernenti la richiesta in loro favore della sanatoria o del permesso di soggiorno. Le vittime, in tante occasioni, erano state lasciate anche con paghe ulteriormente ridotte a scopo di “punizione” per pretestuose inosservanze in occasione ritardi sul luogo di lavoro o di assenze per malattia. È stato accertato, inoltre, che le medesime vittime erano prive di formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di visita medica competente, mai destinatari di materiale anti-infortunistico, ed erano anche state costrette a coabitare in 12 persone in appartamenti insalubri.

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