Marco Camisani Calzolari, da Striscia la Notizia a Pordenone Pensa: rischi e benefici dell’AI

L’intervista a Marco Camisani Calzolari sui vantaggi e i rischi dell’AI.

Questa sera, mercoledì 11 giugno, dalle 20.30 al Teatro Marcello Mascherini di Azzano Decimo, la manifestazione “Pordenone Pensa” avrà l’onore di ospitare colui che ogni sera, attraverso il piccolo schermo, con un linguaggio diretto e una comunicazione accessibile a tutti, mette in guardia i telespettatori da raggiri, truffe e scorrettezze provenienti dal web.

Stiamo parlando dell’esperto informatico che da ben trentacinque anni si occupa del mondo digitale e della comunicazione strategica Marco Camisani Calzolari , conosciuto ai più grazie anche alla trasmissione Striscia la Notizia, il tg satirico che porta la firma di Antonio Ricci. Docente universitario presso i maggiori atenei del nostro Paese, ad oggi presiede il corso come prof Adjin in Cyberhumanities Unisr presso il San Raffaele di Milano, ma ancora, Cavaliere della Repubblica italiana – (ordine della stella d’Italia) conferito dal presidente Sergio Mattarella per la capacità di creare un ponte comunicativo tra l’Italia e gli altri Paesi, Poliziotto ad Honorem per il costante impegno alla lotta contro il cybercrime e molto, moltissimo altro ancora.

Un curriculum di rara comparazione, che ha permesso a Camisani Calzolari di entrare a gamba tesa nelle case della gente comune, per riuscire a capirci qualcosa in questo mondo che sta correndo, forse, troppo veloce, tra Intelligenza artificiale, robot, tecnologie all’ avanguardia. Noi, abbiamo voluto capirne di più proprio con il diretto interessato.

– Ciao Marco, grazie per averci concesso questa intervista. Questa sera sarai ospite alla manifestazione Pordenone Pensa. Ci stanno davvero rubando la facoltà di pensare le nuove tecnologie?

Sì. Ma il problema non sono le tecnologie. Sono le persone che le delegano. Pensare è fatica. Dubitare, scegliere, prendersi la responsabilità. Se arriva un sistema che ti dice “ci penso io” molti dicono: “perfetto”. Ma così non ragioniamo più. Ci limitiamo a scorrere, cliccare, confermare. Non è l’AI a toglierci qualcosa. Siamo noi che glielo stiamo regalando. E le aziende che la progettano lo sanno benissimo. Più decidono loro, meno decidiamo noi. E meno pensiamo.
Quindi sì: ce la stanno rubando. Ma solo perché abbiamo lasciato la porta aperta.

– Parlerai soprattutto di intelligenza artificiale, dei rischi e delle opportunità. Qual è il modo migliore per approcciarsi a questa svolta?

Diffidare. Sempre. L’AI non è neutra, non è oggettiva, non è “magica”. È uno strumento costruito da qualcuno, con obiettivi precisi. Se non sappiamo quali, finiamo per fidarci alla cieca. E quando ti fidi di una macchina senza capire come funziona, non la stai usando: la stai subendo.
Il modo migliore per affrontare questa svolta è non inchinarsi. Studiare, osservare, domandare. Non serve essere ingegneri, basta essere cittadini consapevoli.
Chi non capisce l’AI non sarà dominato dai robot. Sarà dominato da chi li controlla.
La mia principale missione è farne capire le opportunità e i rischia più persone possibile.

–  ⁠Non c’è il rischio che la situazione sfugga di mano?

È già sfuggita. Le intelligenze Artificiali sono ovunque: raccomandazioni, assunzioni, chatbot che parlano con milioni di persone. Ma chi li controlla davvero? Chi li ha scelti? Nessuno.
Il problema non è il futuro. È il presente, che stiamo lasciando gestire a modelli opachi, ingestibili, spesso irresponsabili. Ci raccontano che tutto è sotto controllo, ma intanto nessuno sa esattamente come funzionano certi modelli. Nemmeno chi li ha creati.
Questa non è innovazione. È delega cieca. E chiudere gli occhi adesso è il modo migliore per ritrovarsi senza voce domani.

–  ⁠I “truffatori seriali” avranno il terreno fertile a causa di tutto ciò che si può fare con l’AI?

Ce l’hanno già. L’AI non crea i truffatori. Li potenzia. Li moltiplica. Prima dovevano faticare: scrivere mail, fare telefonate, inventarsi storie. Ora bastano pochi clic per generare voci, volti, identità. E lo fanno su scala industriale.
Il  punto è che il confine tra vero e falso è crollato. E chi non è preparato, chi non dubita, finisce in trappola. Perché l’ingannonon lo riconosci più dall’italiano sgrammaticato. Ora ti chiama tua madre. Ma non è tua madre.
E finché non ci saranno regole chiare, responsabilità forti e strumenti di difesa alla portata di tutti, questi criminali avranno sempre un vantaggio.

–  ⁠È davvero una rivoluzione o rischiamo di diventare vittime dei robot?

È una rivoluzione, sì. Ma il rischio non sono i robot. Siamo noi.
Stiamo costruendo macchine sempre più intelligenti, ma stiamo impoverendo noi stessi. Stiamo perdendo il senso critico, il dubbio, la lentezza. L’AI decide, noi approviamo. L’AI scrive, noi leggiamo. L’AI parla, noi stiamo zitti.
Il pericolo non è che le macchine ci dominino. È che smettiamo di domandarci se quello che fanno è giusto. Se rispetta i nostri valori. Se è davvero quello che vogliamo. Perché se ci abituiamo all’efficienza, all’automazione, alla neutralità apparente, rischiamo di perdere il contatto con ciò che ci rende umani.
Non finiremo schiavi dei robot. Ma potremmo diventare complici di un mondo che non ci assomiglia più.
Nei fast food l’AI spinge ad automatizzare i lavoratori più giovani, spostando ricchezza e potere verso pochi colossi .
In ambito militare si lavora sui droni killer autonomi. La cintura si stringe. Non parliamo di scenari da film apocalittico, ma di erosione silenziosa di controllo, autonomia decisionale delegata a sistemi opachi . E hanno già preso piede in Ucraina e Russia .
Geoffrey Hinton stima un 1020 % di rischio reale di estinzione umana entro 30 anni . E anche se non arriviamo all’apocalisse, rischiamo una distopia grigia: disinformazione, automazione selvaggia e perdita di ricchezza da cui sarà impossibile risollevarsi .
La posta in gioco è la nostra autonomia, la nostra dignità, il futuro delle generazioni. Se non reagiamo, rischiamo davvero di diventare sudditi dei sistemi che abbiamo creato.

– Nel tuo ultimo libro Cyberumanesimo spieghi quindi come non farci “inghiottire” dalle cosiddette macchine artificiali..

Innanzitutto siamo oltre le macchine artificiali. Oggi le macchine prendono decisioni da sole a differenza di quelle della generazione precedente che automatizzavano semplicemente le cose.
Il rischio non è solo tecnologico. È culturale.
Il vero pericolo è abituarci. Abituarci a risposte facili, decisioni automatiche, relazioni sintetiche. L’AI non è il nemico. Ma se smettiamo di coltivare la nostra umanità, pensiero critico, empatia, memoria, responsabilità, ci inghiotte senza nemmeno accorgercene.
Cyberumanisimo non è un libro sull’AI. È un libro su di noi. Su come restare umani in un mondo che spinge sempre più verso l’automatismo. Perché possiamo usare la tecnologia, ma non possiamo diventare come lei.

–  ⁠Qual è il confine tra il giusto uso della tecnologia e il restare centrati nel valore umano?

Il confine siamo noi. La tecnologia non ha morale. Non sa cos’è giusto. Sa solo funzionare. Siamo noi a doverle dare un senso. A decidere quando serve e quando no. A chiederci: ci sta migliorando… o ci sta svuotando?
Il punto non è usare l’AI. È non usarla come scusa. Per non pensare, per non sentire, per non assumersi responsabilità. Se lasciamo che sia la macchina a decidere cosa è bene, cosa è vero, cosa è utile, allora il valore umano lo perdiamo per strada. Restare centrati vuol dire ricordarsi chi siamo. E chiederci ogni volta: Il modo in cui sto usando questa tecnologia mi potenzia o mi sostituisce.

– Dobbiamo avere paura di tutta questa rivoluzione digitale?

No. Ma dobbiamo avere coscienza. E memoria. La paura paralizza. Ma l’entusiasmo cieco è peggio. Perché ci fa correre senza chiederci dove stiamo andando. La rivoluzione dell’IA generativa sta riscrivendo le regole: del lavoro, dalla conoscenza, delle relazioni. Ma nessuno ci ha chiesto il permesso. Non dobbiamo temere la tecnologia. Dobbiamo temere l’assenzadi visione. Il silenzio. L’indifferenza. Perché mentre noi ci entusiasmiamo all’ultimo LLM, qualcuno sta decidendo chi siamo, cosa vediamo, cosa valiamo.
Quindi no, niente panico. Ma basta incoscienza.

In questo vortice “digitalizzato” Camisani Calzolari ha inoltre da tempo  iniziato una splendida collaborazione con una figura di spicco del nostro territorio, Gabriele Gobbo, consulente e docente in Digital communication, che coinvolgiamo in questa intervista per farci raccontare l’ uscita del libro appena sfornato “Digitalogia”.

– Gabriele, perché hai sentito l’urgenza di scrivere il tuo libro Digitalogia proprio adesso?

Ho voluto scrivere Digitalogia proprio ora perché è proprio ora che le persone si sentono più smarrite nel mondo che le circonda. Sono quotidianamente disorientate: usano lo smartphone da anni, ma non si spiegano perché vedano certe pubblicità; sono sui social, ma non capiscono perché compaiano determinati post; lavorano online, ma spesso si sentono quasi obbligate. Il digitale dovrebbe semplificarci la vita, e invece capita che la complichi. Io credo che debba essere un alleato, non un nemico. Ma solo se iniziamo a capirlo. Non serve diventare informatici: serve una consapevolezza di base per vivere meglio il nostro tempo digitale. Non è un’epoca facile, ma è l’unica che abbiamo.

– Gabriele, quali argomenti tratti nel libro?

Nel libro parlo di cultura digitale, dal punto di vista umano. Niente tecnicismi, niente hype. Affronto i temi che ci toccano ogni giorno senza che ce ne accorgiamo: il rapporto con i social, la dipendenza da notifiche, l’illusione della privacy, l’influenza degli algoritmi, la fatica di disconnettersi. Ma anche la scuola, il lavoro, i figli, la pubblicità. È un viaggio nella quotidianità digitale con l’obiettivo di capirla e riprenderci un po’ di controllo. Perché il punto non è imparare a usare gli strumenti, ma capire come farlo al meglio. E aggiungo che sono davvero molto felice e onorato che sia stato proprio Marco Camisani Calzolari a scrivere la prefazione del libro: è da sempre una mia fonte di ispirazione.

– Un rapporto solido, quindi, quello oramai instaurato tra te e  Marco. A proposito, Marco, un’ ultima domanda: com è nata la prefazione per il libro di Gabriele?

Conosco Gabriele da anni, seguo il suo lavoro e ne apprezzo l’approccio concreto, diretto, mai urlato. La sua scrittura riesce a rendere accessibili temi spesso trattati con eccessiva tecnicità. Quando mi ha proposto di firmare la prefazione, non ho avuto dubbi. Perché Digitalogia parla alle persone, non ai tecnologi. E oggi ce n’è un gran bisogno. Mancava un libro così: diretto, sincero, umano.


Si ringraziano per la grande disponibilità dimostrata Marco Camisani Calzolari e Gabriele Gobbo.